L’evoluzione del ritratto in pittura attraverso l’analisi di un’opera
Il genere del ritratto in pittura non è certamente un’invenzione del Seicento ne tanto meno ne costituisce una marcata peculiarità ma è in questo secolo che la ritrattistica, così come altri generi pittorici, raggiungono piena dignità artistica connotandosi di forti valori mai pienamente sviluppati in passato.
Il secolo, come i più sanno, si apre con i dettami indicati dalla nuova Chiesa Contro riformata, premesse che incideranno fortemente sui canoni dell’arte religiosa e che attraverseranno trasversalmente altre forme d’arte.
Il primo Seicento segna dunque una cesura netta con la pittura oramai logora e forse troppo intellettualistica del tardo-manierismo, rigorosamente logica e dimostrativa, spesso ad appannaggio di pochi fruitori; proprio la ritrattistica brilla di uno spirito di rinnovamento artistico proprio, immaginata con un sentire nuovo, spesso drammatico e concitato.
Basterebbe a tal proposito citare il ritratto di Giovan Carlo Doria a Cavallo di Rubens conservato al palazzo Spinola di Genova o il busto marmoreo di Francesco I d’Este del Bernini custodito nelle gallerie Estensi di Modena.
La ritrattistica s’impregna di tutte le istanze contenutistico/formali espresse dal nascente fenomeno del barocco, su tutto l’impiego della retorica intesa quest’ultima come arte del persuadere, strumento imprescindibile per la comunicazione dell’artista.
Un modus operandi che si inserisce nel più ampio e variopinto contesto iconografico e iconologico dell’arte barocca, che vuole meravigliare ma soprattutto educare e persuadere.
Grandi famiglie aristocratiche iniziano ad affidarsi all’elocutio del ritratto per propagandare il proprio casato, talvolta con fasto ed esuberanza come mai prima d’ora. Si prende consapevolezza dell’opera d’arte focalizzata nella macro area della comunicazione, siamo agli albori delle prime forme di pubblicità.
La retorica del ritratto aulico e celebrativo sembra quasi schiodare le finalità della ormai desueta ritrattistica quattro-cinquecentesca probabilmente più legate a riflettere la psicologia del personaggio, “i moti dell’animo” per citare Leonardo da Vinci, a favore qui di una rappresentazione legata soprattutto allo status del personaggio dipinto, ad esaltarne la funzione, imponendo senso di autorità e autorevolezza, destando ammirazione e soggezione mediante il fasto di abiti e l’utilizzo di particolari espedienti all’interno della composizione.
Il ritratto spesso può raccontare, per chi è in grado di leggerlo, una realtà sfuggente tesa a nascondere incertezze sociali, politiche e religiose, tutto camuffato da quella innata voglia di effimero e stupor mundi tipici del periodo.
Ci può essere d’ausilio, ai fini di una maggiore comprensione di quanto detto, le parole di Monsignor Giovan Battista Agucchi che, nel suo “Trattato sulla Pittura” del 1610, sosteneva che:
“la forma più evoluta di ritrattistica era quella che andando oltre la somiglianza al soggetto, raffigurava i personaggi come avrebbero dovuto essere, in funzione della loro posizione nel mondo“
Questa ampia premessa sull’evoluzione che attraversa il genere del ritratto a cavallo tra ‘500 e ‘600 ci torna utile preambolo per l’avvicinamento al dipinto qui presentato. Trattasi di una mirabile opera ascritta ad un pittore dell’ambito di Gian Paolo Cavagna (Bergamo 1550-1627) raffigurante un ritratto di gentiluomo con gorgiera.
Realizzata ad olio su tela e munito di bella cornice in stile in legno ebanizzato e dorato, appartiene alla collezioni di dipinti antichi del venditore Antichità La Pieve.
Come nella grande maggioranza dei casi, i ritratti sono intrinsecamente legati all’identità del soggetto raffigurato, in simbiosi con la cultura nella quale l’artista ed il soggetto sono immersi a dispetto invece di altri ritratti che confluiscono talmente nell’anedottico da svolgere una funzione meramente da foto-ricordo.
Il personaggio ritratto è inquadrato in questo clima culturale in cui la ritrattistica trovò stagione felice, stagione in cui la Lombardia era governata dal governo spagnolo da cui derivò probabilmente la moda degli abiti neri ( detti “alla spagnola”). Rattenuto è l’impianto della figura, tagliata a tre quarti della sua altezza, grandiosa in quel suo occupare pienamente lo spazio circostante timidamente accennato. La fierezza dell’uomo è qui sottolineata, oltre che dal suo sguardo e della posa assunta, eretta ed impettita, anche proprio dall’austera e squadrata silhouette del suo abito scuro che incute quasi timore e reverenza alla vista. Un pacato e sorvegliato intellettualismo traspare dal suo sguardo e prosegue sino al volume che reca nella sua mano destra.
Preziose stoffe, tagli, ricami, finiture applicate e altre forme di ornamenti superficiali furono il tratto distintivo di quest’epoca ben esemplificato nel nostro dipinto. Relegato ai margini dell’inquadratura un curioso orologio da tavolo dorato accende la temperatura cromatica dell’opera mentre nella sua mano destra sfoggia un libro, due chiari riferimenti simbolici evocativi dello status symbol del nobile. Ornamento tipico dell’epoca fu la gorgiera che da modesto ornamento attaccato al collo divenne un vero e proprio accessorio separato, in lino, decorato con pizzo, intagli e ricami, a forma di ventaglio, sostenuto da stecche di ferro.
L’opera viene finita dall’autore campendo una buona porzione di tela con un fondo monocromo grigio sul quale viene appena accennata la presenza di una colonna, tipico riferimento colto spesso presente nella pittura di ritratto.
Guanti Bianchi di Alessandro Odierna
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