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Cesare Monti a Corenno Plinio, 1944.
Nel 1906, all’età di tredici anni, Cesare Monti viene letteralmente spedito a Parigi dal padre, barbiere a Brescia, nella speranza che il giovane figlio prosegua il suo lavoro. Il risultato sarà diverso, dato che al suo ritorno, nel 1908, Monti avrà chiaro e fisso in testa il pensiero e il desiderio di diventare pittore.
Nel 1912 grazie ad una borsa di studio del Comune di Brescia si trasferisce a Milano, dove inizia la sua attività di pittore. Sono anni in cui la pittura di Monti si indirizza verso un linguaggio divisionista, legato essenzialmente all’opera di Seurat.
Nel 1915 apre lo studio in via Bagutta al civico 11, ma l’avvento della Grande Guerra, alla quale partecipa, lo costringe ad una lunga pausa.
Testimonianza di questo periodo sono le scenette popolari riprese quando si trovava in Dalmazia: si tratta di dipinti influenzati dai pittori Nabis, che Monti eseguirà circa fino al 1918.
“Paesaggio a Colico”, 1931 – olio su tela, cm 90×100
Dopo la Grande Guerra la sua pittura abbandona il candore che la contraddistingueva e inizia ad evolversi in un linguaggio nuovo: lo studio degli antichi ha il sopravvento,le figure e gli impianti compositivi riportano al primo rinascimento italiano. Milano lo influenza e i contatti con il futuro gruppo di Novecento di Margherita Sarfatti si fanno più fitti; Monti non sarà mai particolarmente amato della madrina del Novecento, probabilmente per via del suo carattere giudicato troppo candido, eppure si ritaglierà spazi importanti sia all’interno delle mostre del gruppo “allargato”, sia con le sue presenze alla Biennale, ampiamente premiate dal pubblico e dalla critica.
E proprio nel ‘20 ha inizio la sua avventurapittorica legata al gruppo di Novecento: esordisce alla Biennale di Venezia,alla quale sarà sempre invitato fino al 1950 (nel 1940 con una sala personale con 28 opere) collezionando quattordici partecipazioni; nel 1930 gli viene assegnato proprio alla Biennale di Venezia il Premio Omero Soppelsa per il miglior paesaggio, premio non da poco per un autodidatta, specie a fronte delle partecipazioni eccellenti di quell’anno.
“Collana rossa”, 1956 – olio su tela, cm 130×75
Nel 1926 partecipa a tutte le mostre organizzate dal comitato del Novecento Italiano: I Mostra di Novecento italiano, Milano;Italienische Maler, Kunsthaus di Zurigo; Novecento italiano, Kunsthalle, Amburgo, giugno 1927 ; Esposizione d’Arte Italiana in Olanda, Amsterdam ottobre 1927.
Nel 1924 era stato inoltre vittorioso al premio Magnocavallo; nel 1926 il premio Fornara; 1927 Premio Guido Ricci; nel 1932 il Premio Omero Soppelsa.
Nel 1928 segue il ritratto della Signora Boschi Di Stefani, oggi nel sole principale della omonima casa museo.
Nonostante il paesaggio fosse riconosciuto come sua grande specialità, le figure e il ritratto gli vengono richiesti dalle famiglie lombarde più importanti, grazie alla sensibilità e alla capacità di cogliere lo spirito dei ritrattati, fondendo la libertà della pennellata impressionista all’immobilità novecentista.
Nel 1930 è invitato ad esporre alla Permanente insieme a Carrà, Marussig, De Grada e Tosi.
“Bicchiere con rose”, 1926 – olio su tela, cm 30×50
Nel Febbraio del 1929 su invito partecipa alla II mostra del Novecento Italiano alla Permanente dove espone due opere; a marzo è a Nizza dove alla Société des Beaux-arts si apre l’Exposition du Novecento Italiano. Peinture, sculpture, decoration. Nel 1930 espone a Buenos Aires alla mostra Novecento Italiano e nel 1931 espone a Monaco e a Stoccolma, nella mostra Il Novecento Italiano; sempre nel 1931 è invitato alla I Quadriennale di Roma, nel 1930 Espone alla Galleria Pesaro con Bucci e Steffenini; sempre alla Pesaro nel 1932 con Frisia e Vellani Marchi (presentati da Enrico Somarè); nel 1934 ancora con Novecento a Stoccolma, Oslo, Amburgo, Berna, Pittsburgh, Buenosa Aires; nel 1938 ancora alla Pesaro nella collettiva Quattro pittori lombardi; nel 1939 è invitato a partecipare alla Prima mostra di Corrente, nonostante le distanze stilistiche e di ideali con i giovani pittori ribelli, che mostrano però grande rispetto per la coerenza del suo cammino artistico.
Giusto anche ricordare la cattedra a Professore onorario di Brera del 1924 e quella del 1939 all’Accademia di Belle Arti di Apuania Carrara.
Traspare, dal lavoro di Monti, l’incessante necessità di aggiornamento.
“Giovane donna”, 1932 – olio su tela, cm 72×50
La sua evoluzione pittorica prosegue fino alla fine, passando dall’iniziale divisionismo ai più rigidi canoni di Novecento ad una più libera pittura eseguita senza disegno, sull’onda dell’impressione, per giungere a confrontarsi coraggiosamente e consapevolmente con le nuove tendenze, in una sorta di stile figurativo/informale che rendono di grande interesse le opere degli ultimi anni.
In molti scrissero di lui, ma è bello citare il ricordo di Alfonso Gatto del 1968:
”[…] Durante gli anni ultimi della guerra e della clandestinità, dal ’43 al ’45, io fui molto vicino a Cesare Monti. A Corenno Plinio, dove il lago di Como si fa grande e deserto, ero sfollato anch’io. C’erano Carrà, Barbaro, Colognese. Monti aveva la sua casa e il suo studio ai confini del piccolo paese, verso Dorio, e lì andavo a trovarlo ogni sera. Non mi mostrò mai i suoi quadri, li vedevo io, appesi alle pareti, o dovevo cercarli da me con discrezione e con molesta curiosità insieme, affacciandomeli di sbieco allo sguardo, quasi di sotterfugio.[…] C’era in ogni opera e in ogni operetta, una distensione di ritmo e di frase pittorica, sempre più larga e consonante degli accenti che pur le davano timbro e allegria: un riposto sentimento poetico che ancora ne vive e che una meditata antologia delle opere di Monti dovrà riproporre.
Era, quella, la stagione in cui lavoravo alle poesie di “Amore della vita”. Monti, passando in bicicletta verso Dervio, voltava la testa, fischiandomi, nel sapere ch’ero li davanti al balcone a compitare. Mi sorrideva in fretta col suo occhio chiaro, come a confermati che tutto il segreto era ancora nel “guardare” e nel trovare accenti di festa anche per i giorni più oscuri.
“Ai campi (la famiglia)”, 1921 – olio su tela cm 50×60
“D’un balzo il cuore, desto, avrà parole…”, io gli lessi un giorno da quei versi, e lui, incappottato, mi strinse alle spalle, anch’io infagottato e rituale come un fantoccio di nebbia. Presto ci saremmo liberati di ogni abito e ogni divisa, avremmo riavuto il sole e la vita vivente. Ne era certo: una tranquilla fede umana, la sua. Il lungo colloquio silenzioso con la pittura gli dava il segreto aiuto e della pazienza e l’ironia per ogni autorità umiliante. Con l’aria più franca, quasi a non darsene merito, Monti si dimostrava allora civilissimo uomo di cultura.
Monti era un particolare uomo di cultura. Sapeva più di quel che mostrava: ne davano conto i suoi libri e la bella semplicità che riusciva a avere con i giovani figli: un ricordo, un esempio, per me indimenticabili.
In quell’uomo ironico, attento e distratto insieme, si celava quasi con pudore, un attore di intelligenza sottile, arguta e provocatoria, che tuttavia voleva dar poco conto alla sua destrezza alla sua implicazione intellettuale, per attenersi alla semplicità e al filo ininterrotto del suo “vedere”. Era più tenace in lui la dedica all’evidenza, a una visibilità offerta e direi, con una immagine per lui significante bontà e bellezza, al balcone della vita vivente. Il suo, voleva essere, ed è, un mondo naturale abitato con naturalezza dall’uomo. È in questo solco, in questo odore lombardo, che Cesare Monti lascia il segno della sua poesia pittorica. Noi continueremo a vedere nelle sue tele ancora l’offerta luminosa dei suoi occhi”.