In una stanza dall’aria polverosa sono comodamente sedute a terra due donne, entrambe hanno un velo che copre loro il capo, indossano un abito della medesima stoffa, a fiori celesti e rosa.
Non guardano verso chi le osserva perché hanno lo sguardo chino, sono concentrare nel finire a mano gli ultimi ritocchi ad un grosso ricamo che reggono tra le mani.
È il 1971, siamo a Kabul, e quello che hanno tra le mani non è un kilim tradizionale. È Mappa, di Alighiero Boetti.
Artista, sperimentatore del colore, dei concetti, delle parole, Boetti è anche uno scopritore che viaggia, fino ad arrivare in Afghanistan, e lì trova quella che definirà la sua seconda casa. Tra le mura di un luogo dall’atmosfera remota ed in cui il tempo delle tradizioni era rimasto invariato, ha trovato quello che cercava, e non erano idee, non erano colori o forme, ma un gruppo di ricamatrici della scuola della signora Kandi.
Il loro è un legame che nasce tessendo, tessendo un’amicizia che durerà anni, tessendo l’ordito di un tappeto, tessendo un’opera.
È a loro infatti che commissionerà la manifattura delle sue idee, ritrovando all’interno di una tradizione antica la sua idee artistica.
“Kilim” in turco significa tappeto, è una parola antica tanto quanto la memoria che vi ruota attorno.
Non sono solamente parte dell’arredo, sono parte della vita quotidiana: su di loro si mangia, si chiacchiera, si offre il tè, sono parte della dote di una ragazza.
L’aura familiare, quotidiana che vi ruota attorno li ha protetti dai mercati occidentali ed ha fatto sì che preservassero i loro motivi decorativi ed i loro colori.
È questa autenticità che Boetti va cercando, ramingo tra popolazioni lontane, tra mani operose e ricami intricati.
Dagli anni Sessanta la sua ricerca è volta all’elaborazione concettuale, sviluppa infatti i progetti sullo sdoppiamento, sulla simmetria, sulla moltiplicazione. Propone un’arte che coinvolga sistemi e schemi prestabiliti all’interno dei quali agire, all’interno dei quali “non debba fare nulla”.
“[…] Il lavoro della Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere.” (A. Boetti, 1974)
Alighiero Boetti, Mappa, 1971-1973, ricamo su tessuto, 147 x 228 cm.
Nei kilim la sua idea è già insita da secoli.
Il loro schema decorativo è geometrico, i disegni sono disposti orizzontalmente a formare losanghe, stelle, croci o strisce dentate, isolati o ripetuti, non sono mai troppo grandi.
Hanno colori squillanti e contrastanti, quegli stessi che Alighiero vuole per le sue opere e che pone l’uno accanto all’altro per farli risaltare.
I ricamatori afgani procedono per contrapposizione tra elementi positivi e negativi. Uno di tono chiaro e l’altro scuro, o due che, combaciando, creino dissonanza, che risaltino entrambi l’uno con l’altro.
Così si crea il movimento, con dinamismo ornamentale.
Lo sguardo cade prima sui colori, confuso da quel marasma cromatico, intuisce le forme senza captarle a prima vista: è quando ci si allontana un po’, si osserva l’insieme, che ci si accorge che la trama è solo apparentemente complicata e che, in realtà, è semplice. Semplicissima.
Un susseguirsi di lettere, di Stati, di francobolli, fiumi, che confonde lo spettatore, per poi ricondurlo alla semplicità.
Il doppio, quel pensiero che stuzzica la mente di Boetti dagli anni Sessanta, è la chiave di lettura di molte sue opere.
Il doppio inteso come gioco tra parola ed immagine, ideazione di schemi che si ripetono all’interno di una tela: il doppio è il cuore delle sue opere più famose.
Cento riquadri, ciascuno composto da cento punti, all’interno di un unico gioco di alternanze.
Il primo è puro: completamente bianco, il secondo è macchiato da un quadratino nero, il terzo da due, il quarto da tre.
È una successione di passaggi che si insegue, si moltiplica e si ripete finché non se ne perde il conto ed il colore, e quindi: di che colore è il puntino da aggiungere? Nero o bianco?
Quale è ora la base? Nera o bianca?
E si ritorna, al centesimo riquadro, al bianco.
È un’operazione che può essere eseguita in cento modi differenti, affiancando puntini in posizioni differenti, con toni differenti, ora bianco e ora nero.
“[…] Il procedimento celebra una litania, un viaggio tra gli opposti. Non sono gli opposti che contano, poiché sono stati, bensì il viaggio tra gli opposti. E più ancora: il bianco si è trasformato in nero, il nero in bianco. Gli opposti si sono trasformati, ma continuano a sussistere”.
J. Ammann e A. Fiore, Alighiero e Boetti. Alternando da 1 a 100 e viceversa, Trinitatiskirche Köln, 1997.
Alighiero Boetti, Da 1 a 100 e viceversa, anni ’70, ricamo su tessuto, 122,5 x 129cm.
Esempio di schema ornamentale dei kilim.
Ed è ciò che fanno le ricamatrici, compongono mantenendo intatti quegli schemi di colori e forme che sono propri di ogni singola tribù, tanto che osservando un kilim si può stabilire da quale zona provenga e quale messaggio voglia tramandare.
Perché questo artista torinese non commissiona la produzione dei suoi arazzi a nessun altro se non alle ricamatrici afgane?
Il perché è da ricercarsi nell’idea artistica di Boetti, del voler usare qualcosa di preesistente e modificarlo: la tradizione dei kilim, i suoi colori, di coloro che la praticano, doveva rimanere intatta, modificata solo nella sua apparenza ornamentale. Sono quel terzo elemento, quello inaspettato, quello che porta le sue opere al di là dei confini dell’opera tradizionale, e porta la tradizione al di là dei suoi confini geografici.
Il kilim è una combinazione di elementi, un accostamento sapiente di forma e colore, così come lo è un’opera d’arte, ed è questo che Boetti intuisce.
Sofia Pettorelli