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Epoca

1600

Misure

cm 105 x 206

Descrizione

Pietro Dandini (Firenze, 12 aprile 1646 – 26 novembre 1712), attr.

Il ritrovamento di Mosè

Olio su tela, cm 105 x 206

Con cornice, cm 116 x 219

 

 

Nato, così come riporta l’erudito Baldinucci, nel 1646 a Firenze nell’ambito di una famiglia di artisti, Pietro (o Pier) Dandini riceve i primi rudimenti in ambito pittorico da parte dello zio Vincenzo. Le notizie relative alla sua parabola esistenziale ci sono note attraverso la sua dettagliatissima biografia, redatta a pochi anni dalla sua morte, di Francesco Saverio Baldinucci: il fatto che, in un limitatissimo lasso di tempo dal suo decesso, gli sia stata dedicata una biografia autonoma dimostra la grande fortuna critica di cui il pittore, già dal primissimo Settecento, godeva in ambito toscano. In seguito alla sua formazione fiorentina, Dandini compie un soggiorno di studio a Venezia, toccando tangenzialmente anche i centri di Modena, Parma e Bologna: in questo frangente, il toscano ha la possibilità di osservare dal vivo e studiare attentamente le opere di Tiziano, Veronese, Correggio e dei Carracci, che lasciano un indelebile segno sul suo ramificato immaginario visivo, influenzando marcatamente la sua intera produzione futura. Nelle sue prime opere, tra cui ricordiamo Un Miracolo del beato Giovacchino Piccolomini – che l’erudito Cinelli nel 1677 lodò vivamente –  e  l’Assunzione della Vergine in S. Verdiana, si denota una decisa influenza rispetto alla produzione di Pietro da Cortona, percepito come ideale maestro. A partire dagli anni Novanta del Seicento, Dandini riceve in Toscana importanti commissioni pubbliche, essendo spesso ingaggiato dal granduca in persona: nel 1591, ad esempio, l’artista esegue a fresco un’Allegoria della Toscana per la volta del salone dei ritratti degli Uffizi, opera vivamente acclamata dall’ormai anziano arista Livio Mehus; altri membri della famiglia granducale si avvalsero in molteplici occasioni del Dandini come decoratore delle loro residenze: la granduchessa Vittoria, a palazzo Pitti e al Poggio Imperiale e il cardinal Francesco Maria nella villa di Lappeggi: qui il Dandini, nel 1703, dipinse a fresco un soffitto con il Carro del Sole e sei scene di battaglia di estrema qualità che sino agli anni Settanta del Novecento venivano considerate del Borgognone (Rudolph,1972; Gregori, 1978). Data la rarità dei dipinti di questo pittore in pubbliche raccolte italiane e straniere, si possono trarre considerazioni inerenti al suo operato soprattutto dalle opere nelle chiese in Firenze o altre località toscane. Tra le opere certamente attribuitegli spicca la pala in S. Giovannino dei Cavalieri a Firenze, con la Decollazione del Battista, uno dei capolavori del secondo Seicento fiorentino. Nonostante si apprenda da scritti coevi o di poco successivi rispetto alla sua parabola esistenziale che egli inviò opere anche in Germania e Polonia (F. S. Baldinucci, p. 280; Moucke, 1762), fu indubbiamente operativo soprattutto a livello locale, dove si distinse con decisione e non gli mancarono le commissioni, non solo per il grande talento ma anche per il carattere affabile che lo distingueva e la cultura letteraria e musicale che gli procacciava molti amici di riguardo.

I temi legati all’infanzia di Mosè hanno goduto di grande fortuna, a livello iconografico, nel XVII secolo, in primo luogo perché in essi si scorgeva la prefigurazione delle tematiche di carattere cristologico illustrate tra le pagine dei quattro vangeli canonici e dei testi apocrifi. Ad esempio, nella vicenda avventurosa del ritrovamento del piccolo Mosè da parte della figlia del faraone, si leggeva la prefigurazione della Fuga in Egitto della Sacra Famiglia, nella quale Gesù scappa dalla persecuzione del re pagano Erode. Il ritrovamento di Mosè era inoltre spesso interpretato come il simbolo del trionfo dell’uomo sulle avversità che lo minacciano e che attanagliano la sua tormentata esistenza. In varie occasioni nell’arco della sua intera carriera Dandini presenta, nelle sue tele, episodi della vita di Mosè: ci basti pensare, oltre che alla bella tela in questione, a Mosè fanciullo calpesta la corona del faraone, attualmente alla pinacoteca Crociani di Montepulciano. In questo caso, l’artista fiorentino descrive la scena del ritrovamento profeta bambino: in un paesaggio che ricorda i verdeggianti territori della campagna laziale solcati dal fiume Tevere si muove un nutrito gruppo di figure femminili. In primo piano, una serva si affretta a salvare dalle acque del fiume il corpicino del bambino, abbandonato in una cesta in vimini visibile ai suoi piedi. La donna sta per porgere il neonato alla regina d’Egitto, riccamente abbigliata e con la corona – attributo tipico delle donne patrizie dandiniane – sul capo, che apre, in un gesto di estrema dolcezza, le braccia per accoglierlo, tra gli occhi sbalorditi del gineceo che le si affastella attorno. Nel dipinto si percepiscono molte delle caratteristiche cruciali dell’attività del Dandini: la pennellata rapida e materica, il tono deciso e rosato degli incarnati, i tratti sinuosi e fortemente connotati delle fisionomie dei volti e il fitto affollamento di figure ben socialmente determinate all’interno delle composizioni.

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