cm 84 x 61
Enea Salmeggia detto il Talpino (Bergamo, 1565 – 1626), secondo decennio del XVII secolo
Ecce homo
Olio su tela, cm 84 x 61
Con cornice, cm 103 x 77
L’opera qui presentata raffigura la scena dell’Ecce homo, traducibile letteralmente con «Ecco l’uomo»; la celebre frase fu pronunciata da Ponzio Pilato quando presentò alla folla Gesù flagellato e incoronato di spine e rappresenta uno dei momenti più toccanti della Passione. Il forte impatto di questa immagine, così satura di pathos drammatico, è stato interpretato magistralmente dal pittore Enea Salmeggia detto il Talpino, nato in Val Seriana, precisamente nella piccola frazione di Salmezza, nel 1570 circa e morto a Bergamo nel 1626. Trasferitosi presto a Bergamo, il Salmeggia si affermerà prima in provincia, poi nel capoluogo orobico e infine giungerà sino alla grande metropoli milanese, dove lascerà importanti testimonianze in alcuni dei luoghi di culto più importanti della città: in Duomo, nella Certosa di Garegnano, in San Maria della Passione, in San Simpliciano e anche nella cappella di Palazzo Carmagnola. Il prestigio di questi luoghi, considerando la forte concorrenza dei colleghi coevi, dai Procaccini al Cerano passando per i conterranei Cavagna e Lolmo, dimostra appieno il livello raggiunto dal Salmeggia, capace di far apprezzare la propria arte anche al di fuori dei confini locali. Infatti, la sua formazione si radica fortemente nella cultura pittorica bergamasca, fra cui svetta la figura di Giovan battista Moroni (Albino, 1520/1524 – 1578/1579), che permarrà lungo tutto il corso della sua carriera con, però, alcune innovazioni apprese durante viaggi, lavori ed esperienze. Il presunto viaggio a Roma nel 1597 introdurrà stilemi che gli varranno il titolo di “Raffaello bergamasco”, la pala dell’Annunciazione per la Certosa gli permetterà di lavorare a stretto contatto con Simone Peterzano, da molti ritenuto suo maestro, mentre nel cantiere di santa Maria Maggiore a Bergamo conoscerà Camillo Procaccini. Tutte queste influenze saranno ben amalgamate dall’artista, capace di sommare elementi diversi in modo armonioso, rinnovando così il proprio linguaggio senza stravolgerlo; in questo caso ci troviamo innanzi a un’opera appartenente al secondo del Seicento: i toni cinerei della pelle del Cristo, il forte patetismo del viso, le espressioni minacciose dei carnefici e l’ambientazione buia, sfruttata al meglio per i contrasti luminosi, testimoniano la fase finale della sua attività. Bisogna infatti dire che il Salmeggia non fu insensibile verso le novità apportate dal gruppo di pittori che Giovanni testori definì argutamente i pestanti. Da qui un uso sempre più continuativo delle ambientazioni notturne, come nelle tele realizzate per Santa Maria della Passione, e un conseguente gioco di contrasti luminosi; inoltre il gusto macabro che caratterizza la pittura di questi artisti, vissuti a cavallo fra due epocali pestilenze, si riverbera anche nelle scene di martirio o di Passione che il Salmeggia realizzerà in questi ultimi anni: la Flagellazione in Santa Maria della Passione, il Martirio di Sant’Agata a Bergamo o il ciclo di tele di Sant’Alessandro. I carnefici, i martiri o i soldati esprimono una emotività più intensa rispetto agli anni precedenti, cercata in maniera non impulsiva ma seguendo un lungo percorso di studi e disegni preparatori, ancora oggi conservati, che dirigono le loro attenzioni verso i leonardeschi della prima metà del Cinquecento; qui il pittore trova la fonte di ispirazione per oltrepassare quella placida atmosfera delle prima pale sacre, in cui i riferimenti andavano verso artisti come Lorenzo Lotto o come Correggio. Siamo dunque in una fase successiva a quella che aveva caratterizzato le prime opere milanesi: lo Sposalizio della Vergine per il Duomo nel 1601, la Madonna in gloria col Bambino e i santi Ambrogio e Carlo Borromeo del 1603 per il Broletto Novissimo o la Deposizione alla Peterzano del 1602, oggi conservata a Brera. Gli insegnamenti tratti in gioventù restano comunque vivi e si aggiungono alle istanze raffaellesche e lottesche ma il tono generale dell’opera cambia, delineando uno stile vicino a quello dei pestanti seppur non identico. Le doti e la qualità del Salmeggia gli varranno gli elogi di Girolamo Borsieri, poeta e trattatista comasco, nella lettera inviata al collezionista Scipione Toso: «V’ha il Salmetia, il quale allo incontro contento dell’imitar la delicatezza e la semplicità di cui adoperava i pennelli nel principio del passato secolo, move a mirar devotamente ciascuna sua imagine fino inemici della stessa devotione.». Dalla lettera, in cui il Borsieri incoraggia l’amico a intraprendere la strada del collezionismo, sono citati gli artisti ritenuti di valore già presenti nelle sue raccolte. Il Salmeggia compare, dunque, a fianco dei grandi pittori coevi come il Morazzone, i Procaccini, il Cerano, ai quali, pochi anni dopo, il Toso affiderà l’esecuzione del celebre Martirio delle sante Rufina e Seconda, noto come Quadro delle tre mani, tanto basta per indicarci l’apprezzamento goduto dal Salmeggia già in questa epoca.
L’oggetto è in buono stato di conservazione
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